Anni fa, ai musei di Porta Romana, è stata allestita una simpatica mostra sui “gialli”. Tra le altre cose si ammirava la ricostruzione di diversi scenari; ad una tavola imbandita sedevano i 12 investigatori più famosi del mondo. Constatai la presenza del mio favorito: Ellery Queen.
Appeso a un gancio c’era il camice di Kay Scarpetta, e , in un angolo, la teiera di Miss Marple. Al termine della visita si potevano annotare i propri commenti sul libro degli ospiti. Lessi alcune righe precedentemente scritte: “avete dimenticato P. D. James!”
Mi unii a quella protesta, pensando che l’omissione era stata in effetti gravissima. Al di là dei miei gusti personali, non si può dimenticare che la scrittrice inglese è stata insignita del titolo di Baronetto della Regina Elisabetta, per meriti letterari, e siede alla Camera dei Lords.
Ciò che colpisce maggiormente è il percorso di crescita che P. D. James ha intrapreso dal suo primo lavoro -“Copritele il volto”- giallo molto apprezzabile, ma che risentiva di una certa staticità.
Nei lavori successivi descrizioni lunghi, giudicate spesso lente, appesantivano una narrazione che rimaneva, a mio avviso, comunque di ottimo livello. In “Morte in seminario" siamo di fronte a 500 pagine di misterioso intreccio, scorrevolissimo nonostante la mole. Il lettore viene catapultato fin dalla prima pagina, in un’atmosfera di epoca Tudor e moderna al contempo, dove ogni riga è cesellata con estrema cura.
L’evoluzione evidente nello stile e nella trama è avvenuto con “Morte sul fiume”. Qui il fulcro è la registrazione della motivazione dell’assassino fatta ascoltare a una delle vittime, mentre sta morendo per intossicazione da monossido di carbonio, in una stanza chiusa. Solo al termine ogni tessera del mosaico, finalmente al suo posto, renderà comprensibile la storia avvincente, e il perché di quella registrazione.
Nel libro seguente, dall’indovinato titolo “Una certa giustizia”, l’ascesa di P. D. James continua. Ancora una volta, più che una caccia all’assassino, è una lotta contro il Male a catturare il lettore e, in entrambi il romanzi, una parte di me arrivò a condividere la voglia di giustizia che costituisce il movente.
Col già citato “Morte in seminario” P.D. James raggiunge l’apice. Pensai che difficilmente avrebbe potuto superare da se stessa, ma mi sbagliavo, infatti con gli ultimi 2 romanzi, tomi di spessore in senso metaforico e non, “La stanza dei delitti” e “La paziente privata” pubblicato nel 2009 l’autrice ci regala pagine di rara bellezza che smentiscono il mio pensiero.
Pochi autori, forse Ruth Rendell, possono contenderle lo scettro di regina della suspense. Di sicuro non Faletti, o l’autore di “Uomini che odiano le donne” tanto osannato dalla critica, i quali più che Re, coi quali dividersi il trono, sembrano piuttosto umili cortigiani.
Ciò che stupisce è l’intreccio ricco, senza scadere mai nella confusione, le motivazioni e quel vago senso di inquietudine che bloccano il lettore alla poltrona, inducendolo a controllare di aver ben chiuso porte e finestre.
Tra i meriti di P. D. James l’aver saputo elevare la tipica ambientazione inglese, allontanandola da stucchevoli stereotipi alla Agatha Christie, mantenendola comunque su un piano di intramontabile English style. Per le sue opere più recenti -non è solo la mia opinione- , ma anche quella più autorevole di riviste del settore, il termine di “giallo” risulta riduttiva. Si tratta infatti di veri drammi, con l’indagine condotta magistralmente da Adam Dalgliesh: il poliziotto poeta. Questo comandante di gran classe avrebbe meritato un posto a tavola, tra gli investigatori più celebri. Del resto 13 commensali, laddove il delitto costituiva il piatto principale, sarebbe stato un numero più azzeccato!
Aspetto con ansia il prossimo romanzo, ma temo non verrà: P.D. James ha ormai 91 anni, me la voglio immaginare mentre sorseggia una buona tazza di English tea, nella brughiera inglese, una porta che scricchiola in sottofondo.